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Niccolò Machiavelli
Niccolò Machiavelli
Niccolò di Bernardo dei
Machiavelli (Firenze, 3 maggio 1469 – Firenze, 21 giugno 1527) è stato uno
storico, scrittore, drammaturgo, politico e filosofo italiano.
Come Leonardo, Machiavelli è considerato un tipico esempio di uomo
rinascimentale. Questa definizione - secondo molti - descrive in maniera
compiuta sia l'uomo sia il letterato più del termine machiavellico, entrato
peraltro nel linguaggio corrente ad indicare un'intelligenza acuta e sottile ma
anche spregiudicata.Machiavelli è inoltre considerato il fondatore della
scienza politica moderna.
Biografia
Infanzia e giovinezza
Niccolò Machiavelli nacque a Firenze,terzo figlio, dopo le sorelle Primavera (1465) e Margherita (1468)
e prima del fratello Totto (1475-1522); figlio di Bernardo (1432-1500) e di
Bartolomea Nelli (1441-1496). Anticamente originari della Val di Pesa, i
Machiavelli sono attestati popolani guelfi residenti almeno dal XIII secolo a
Firenze, dove occuparono uffici pubblici ed esercitarono il commercio. Il padre
Bernardo era tuttavia di così poca fortuna da esser considerato, non si sa
quanto veritieramente, figlio illegittimo: dottore in legge, risparmiatore per
carattere o per necessità, ebbe interesse agli studi di umanità, come risulta da
un suo Libro di Ricordi che è anche la principale fonte di notizie sull'infanzia
di Niccolò.La madre, secondo un suo lontano pronipote, avrebbe composto
laude sacre, rimaste peraltro sconosciute, dedicate proprio al figlio Niccolò.
Nel 1476 Niccolò cominciò a studiare latino con un certo
Matteo, l'anno dopo si dedicava allo studio della grammatica con un Battista da
Poppi, all'aritmetica nel 1480 e l'anno seguente affrontava le prove scritte di
componimento in latino. Opere in questa lingua esistevano nella biblioteca
paterna: la I Deca di Tito Livio e quelle di Flavio Biondo, opere di Cicerone,
Macrobio, Prisciano e Marco Giuniano Giustino. Adulto, maneggerà anche
Lucrezio e la Historia persecutionis vandalicae di Vittore Uticense. Non
conobbe invece il greco antico, ma poté leggere le traduzioni latine di alcuni
degli storici più importanti, soprattutto Tucidide, Polibio e Plutarco, da cui
trasse importantissimi spunti per la sua riflessione sulla storia.
S'interessò alla politica fin dalla giovinezza, come dimostra una sua lettera
del 9 marzo 1498, la seconda che di lui ci è pervenuta - la prima è una
richiesta al cardinale Giovanni Lopez, del 2 dicembre 1497, affinché si adoperi
a riconoscere alla sua famiglia un terreno contestato dalla famiglia dei Pazzi -
indirizzata all'amico Ricciardo Becchi, ambasciatore fiorentino a Roma, nella
quale egli si esprime in modo critico contro Girolamo Savonarola.
La formazione
Due sono le fasi che scandiscono la vita di Niccolò
Machiavelli: nella prima parte della sua esistenza egli è impegnato soprattutto
negli affari pubblici e, in secondo luogo, nella scrittura di testi di limitata
portata teorica e speculativa. A partire dal 1512 si apre la seconda fase
segnata dal forzato allontanamento di Niccolò dalla politica attiva.
Segretario della Seconda Cancelleria della Repubblica fiorentina
« Della persona fu ben
proporzionato, di mezzana statura, di corporatura magro, eretto nel portamento
con piglio ardito. I capelli ebbe neri, la carnagione bianca ma pendente
all'ulivigno; piccolo il capo, il volto ossuto, la fronte alta. Gli occhi
vividissimi e la bocca sottile, serrata, parevano sempre un poco ghignare. Di
lui più ritratti ci rimangono, di buona fattura, ma soltanto Leonardo, col quale
ebbe pur che fare ai suoi prosperi giorni, avrebbe potuto ritradurre in pensiero,
col disegno e i colori, quel fine ambiguo sorriso »
(Roberto Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, p. 22)
Niccolò aveva già presentato al Consiglio dei Richiesti, il 18 febbraio 1498, la
propria candidatura a segretario della Seconda Cancelleria della Repubblica
fiorentina, ma gli fu preferito un candidato savonaroliano. Pochi giorni dopo la
fine dell'avventura politica e religiosa del frate ferrarese, il 28 maggio
Machiavelli fu nuovamente designato ed eletto il 15 giugno dal Consiglio degli
Ottanta, elezione ratificata dal Consiglio maggiore il 19 giugno 1498,
probabilmente grazie all'autorevole raccomandazione del Primo segretario della
Repubblica, Marcello Virgilio Adriani, che il Giovio asserisce essere stato
suo maestro.
Per quanto i compiti delle due Cancellerie siano stati spesso confusi,
generalmente alla prima si attribuivano gli affari esterni, e alla seconda
quelli interni e la guerra: ma i compiti della seconda Cancelleria, presto
unificati con quelli della Cancelleria dei Dieci di libertà e pace, consistevano
nel tenere i rapporti con gli ambasciatori della Repubblica, cosicché,
essendogli stata affidata, il 14 luglio, anche questa ulteriore responsabilità,
Machiavelli finì per doversi occupare di una tale somma di compiti da essere
storicamente considerato, senza ulteriori distinzioni, il «Segretario fiorentino».
Era il tempo nel quale,
conclusa l'avventura italiana di Carlo VIII, la maggiore preoccupazione di
Firenze era volta alla riconquista di Pisa - resasi indipendente dopo che Piero
de' Medici l'aveva data in pegno al re francese - e alleata di Venezia che,
intendendo impedire l'espansione fiorentina, aveva invaso il Casentino,
occupandolo a nome dei Medici. Il pericolo venne fronteggiato dal capitano di
ventura Paolo Vitelli, e la mediazione del duca di Ferrara Ercole I, il 6 aprile
1499, riconsegnò il Casentino a Firenze, autorizzandola altresì a riprendersi
Pisa.
In marzo venne inviato a Pontedera, dove erano acquartierate le milizie del
signore di Piombino, Jacopo d'Appiano, alleato di Firenze; in maggio scrisse il
Discorso della guerra di Pisa per il magistrato dei Dieci: poiché «Pisa bisogna
averla o per assedio o per fame o per espugnazione, con andare con artiglieria
alle mura», esaminate diverse soluzioni, si esprime favorevole a un assedio di
«un quaranta o cinquanta dì ed in questo mezzo trarne tutti gli uomini da guerra
potete, e non solamente cavarne chi vuole uscire, ma premiare chi non ne volesse
uscire, perché se ne esca. Dipoi, passato detto tempo, fare in un subito quanti
fanti si può; fare due batterie, e quanto altro è necessario per accostarsi alle
mura; dare libera licenza che se ne esca chiunque vuole, donne, fanciulli,
vecchi ed ognuno, perché ognuno a difenderla è buono; e così trovandosi i Pisani
voti di difensori dentro, battuti dai tre lati, a tre o quattro assalti sarìa
impossibile che reggessero».
Il 16 luglio 1499 si presentò a Forlì alla contessa Caterina Sforza Riario,
nipote di Ludovico il Moro e madre di Ottaviano Riario, che era stato al soldo
dei fiorentini, per rinnovare l'alleanza e ottenere uomini e munizioni per la
guerra pisana. Ottenne solo vaghe promesse dalla contessa che era già impegnata
a sostenere lo zio nella difficile difesa del Ducato milanese dalle mire di
Luigi XII e dovette ripartire senza aver nulla ottenuto.
Era nuovamente a Firenze in agosto, quando le artiglierie fiorentine, provocata
una breccia nelle mura pisane, aprivano la via alla conquista della città, ma il
Vitelli non seppe sfruttare l'occasione e temporeggiò finché la malaria non ebbe
ragione delle sue truppe, costringendolo a togliere l'assedio il 14 settembre.
Invano ritentò l'impresa: sospettato di tradimento, quello che «era il più
reputato capitano d'Italia» fu decapitato. Nessuna prova vi era che il
Vitelli fosse stato corrotto dai Pisani ma la giustificazione di Machiavelli, a
nome della Repubblica, in risposta alle critiche di un cancelliere di Lucca, fu
che «o per non havere voluto, sendo corropto, o per non havere potuto, non
avendo la compagnia, ne sono nati per sua colpa infiniti mali ad la nostra
impresa, et merita l'uno o l'altro errore, o tuct'a due insieme che possono
stare, infinito castigo».
Conquistato il Ducato di Milano, in
risposta alla richieste fiorentine Luigi XII mandò suoi soldati a risolvere
l'impresa di Pisa le cui mura furono bensì abbattute nel luglio del 1500 ma né
gli svizzeri né i francesi entrarono in città anzi, lamentando che Firenze non
li pagasse, levarono l'assedio e sequestrarono il commissario fiorentino Luca
degli Albizzi, che fu rilasciato solo dietro riscatto. A Machiavelli, presente
ai fatti, non restava che informare la Repubblica, che decise di mandarlo in
Francia, insieme con Francesco della Casa, per cercare nuovi accordi che
risolvessero finalmente la guerra di Pisa. Il 6 agosto 1500 raggiunsero la corte
francese a Nevers, presentando al re e al ministro, cardinale di Rouen, le
rimostranze per il cattivo comportamento dei loro soldati; sapendo che Firenze
non aveva al momento denari sufficienti a finanziare l'impresa, invitarono Luigi
a intervenire direttamente nella guerra, al termine della quale la Repubblica
avrebbe ripagato la Francia di tutte le spese.
Il rifiuto dei francesi - che richiedevano a Firenze il mantenimento degli
svizzeri rimasti accampati in Lunigiana e minacciavano la rottura dell'alleanza
- mise i legati fiorentini, privi di istruzioni dalla Repubblica, in difficoltà,
acuite dalla ribellione di Pistoia e dalle iniziative che frattanto aveva preso
in Romagna Cesare Borgia, i cui ambiziosi e oscuri piani potevano anche
indirizzarsi contro gli interessi fiorentini. Occorreva, pagando, mantenere
buoni rapporti con la Francia - scriveva da Tours il 21 novembre - e guardarsi
dalle macchinazioni del papa: così, ottenuto dalla Signoria il denaro richiesto
dalla Francia, Machiavelli poteva finalmente ritornare a Firenze il 14 gennaio
1501.
Da quella lunga permanenza nella corte francese trasse le notarelle De natura
Gallorum, descritti «humilissimi nella captiva fortuna; nella buona insolenti [
... ] più cupidi de' danari che del sangue [ ... ] varii et leggieri», con una
bassa opinione degli Italiani, oltre ai successivi Ritratti delle cose di
Francia, ma soprattutto ricavò un bagaglio d'esperienza, diplomatica e politica,
i cui frutti dovranno maturare un decennio più tardi.
Cesare Borgia
« Questo signore è
molto splendido e magnifico, e nelle armi è tanto animoso che non è sì gran cosa
che non gli paia piccola, e per gloria e per acquistare Stato mai si riposa né
conosce fatica o periculo: giugne prima in un luogo che se ne possa intendere la
partita donde si lieva; fassi ben volere a' suoi soldati; ha cappati e' migliori
uomini d'Italia: le quali cose lo fanno vittorioso e formidabile, aggiunte con
una perpetua fortuna »
(Machiavelli, Lettera ai Dieci del 26 giugno 1502)
La minaccia del Borgia si fece presto concreta: fermato dalle minacce della
Francia quando tentava d'impadronirsi di Bologna, si volse contro Piombino,
entrando nel territorio della Repubblica e cercando di imporle tributi, dai
quali Firenze fu nuovamente fatta salva dall'intervento di Luigi. Fra una
missione a Pistoia e un'altra a Siena, Niccolò ebbe tempo di sposare,
nell'autunno del 1501, Marietta Corsini, donna di modesta origine, dalla quale
avrà sette figli: Primerana, Bernardo, Lodovico, Guido, Piero, Baccina e Totto.
Padrone di Piombino il 3 settembre 1501, il Borgia, per mezzo del suo sodale
Vitellozzo Vitelli s'impadronì di Arezzo, dove si stabilì Piero de' Medici, poi
delle terre di Valdichiana, di Cortona, di Anghiari e di Borgo San Sepolcro e di
lì passò a investire Camerino e Urbino, chiedendo nel contempo di intavolare
trattative con Firenze che, nel frattempo, vistasi stretta dai due Borgia, padre
e figlio, aveva rinnovato gli accordi con la Francia. Il 22 giugno 1502, lo
stesso giorno della caduta della città nelle mani di Cesare, partirono per
Urbino Machiavelli e il vescovo di Volterra, Francesco Soderini, fratello di
Piero: ricevuti il 24 giugno, si sentirono ordinare di cambiare il governo della
Repubblica, pena la sua inimicizia. La crisi fu superata grazie all'intervento
delle armi francesi: avvicinandosi queste ad Arezzo, la città fu sgomberata e
restituita, insieme con le altre terre, ai Fiorentini. Riferimento a questi casi
è il breve scritto dell'anno successivo, Del modo di trattare i popoli della
Valdichiana ribellati, nel quale, preso esempio dal comportamento tenuto dagli
antichi Romani in caso di ribellioni, rimprovera il governo fiorentino di non
aver trattato severamente la ribelle città di Arezzo. Pensa che come i Romani
« fecero giudizio differente per esser differente il peccato di quelli popoli,
così dovevi fare voi, trovando ancora nei vostri ribellati differenza di peccati
[ ... ] giudico ben giudicato che a Cortona, Castiglione, il Borgo, Foiano, si
siano mantenuti i capitoli, siano vezzeggiati e vi siate ingegnati riguadagnarli
con i beneficii [ ... ] ma io non approvo che gli Aretini, simili ai Veliterni
ed Anziani non siano stati trattati come loro. [ ... ] I Romani pensarono
una volta che i popoli ribellati si debbano o beneficare o spegnere e che ogni
altra via sia pericolosissima. »
Di fronte a quelli che apparivano tempi nuovi e tempestosi, nei quali occorreva
che uomini capaci prendessero pronte risoluzioni, come prima riforma
nell'organizzazione dello Stato fiorentino fu resa vitalizia la carica di
gonfaloniere, affidata, il 15 settembre 1502, a Pier Soderini, che appariva uomo
accetto tanto agli ottimati che ai popolani. La prima missione che egli affidò a
Machiavelli fu quella di prendere nuovamente contatto col Borgia il quale,
formalmente capitano delle truppe pontificie e finanziato da quello Stato,
intendeva tuttavia agire nel proprio interesse e in quello della sua famiglia,
stringendo un nuovo patto col Luigi XII e ottenendone libertà d'azione nei suoi
piani di espansione, non solo nei confronti di signorotti quali gli Orsini, i
Baglioni e il Vitelli, già suoi alleati, ma anche contro lo stesso Bentivoglio
di Bologna. Seguendo la tradizionale politica di alleanza con la Francia,
Firenze - pur diffidando del Valentino - intendeva confermargli la sua amicizia,
per non essere investita dai suoi aggressivi disegni.
Machiavelli giunse a Imola dal Borgia il 7 ottobre, confidandogli che Firenze
non aveva aderito all'offerta di amicizia propostale dagli Orsini e dai Vitelli,
congiurati a Magione contro il duca Valentino, e ne ricevette in cambio
un'offerta di alleanza, alla quale Niccolò, affascinato dalla figura di Cesare
Borgia, guardava con favore più di quanto non facesse il governo fiorentino. Fu
al seguito del Valentino per tutta la durata di quei tre mesi di campagna
militare e, il 1º gennaio 1503, due ore dopo l'uccisione a tradimento di
Vitellozzo e di Oliverotto da Fermo, ne raccolse le parole «savie e
affezionatissime» per i Fiorentini, invitati nuovamente a unirsi a lui per
avventarsi contro Perugia e Città di Castello. Firenze, a questo punto, decise
di mandare presso il Borgia un ambasciatore accreditato, Jacopo Salviati, così
che il nostro Segretario il 20 gennaio lasciò il campo di Città della Pieve per
fare ritorno a Firenze.
« Vitellozo, Pagolo et duca di
Gravina in su muletti ne andorno incontro al duca, accompagnati da pochi cavagli;
et Vitellozo disarmato, con una cappa foderata di verde, tucto aflicto se fussi
conscio della sua futura morte, dava di sé, conosciuta la virtù dello huomo et
la passata sua fortuna, qualche ammiratione [ ... ] Arrivati adunque questi tre
davanti al duca, et salutatolo humanamente, furno da quello ricevuti con buono
volto [ ... ] Ma, veduto il duca come Liverotto vi mancava [ ... ] adciennò con
l'occhio a don Michele, al quale la cura di Leverotto era demandata, che
provedessi in modo che Liverotto non schapassi [ ... ] Liverotto havendo facto
riverenza, si adcompagnò con gli altri; et entrati in Senigagla, et scavalcati
tutti ad lo alloggiamento del duca, et entrati seco in una stanza secreta, furno
dal duca fatti prigioni [ ... ] venuta la nocte [ ... ] al duca parve di fare
admazare Vitellozzo e Liverotto; et conductogli in uno luogo insieme, gli fe'
strangolare [ ... ] Pagolo et el duca di Gravina Orsini furno lasciati vivi per
infino che il duca intese che a Roma el papa haveva preso el cardinale Orsino,
l'arcivescovo di Firenze et messer Jacopo da Santa Croce; dopo la quale nuova, a
dì 18 di giennaio, ad Castel della Pieve furno anchora loro nel medesimo modo
strangolati »
(Machiavelli, Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare
Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina
Orsini, giugno-agosto 1503)
A Roma
La morte di Alessandro VI privò Cesare Borgia delle risorse
finanziarie e politiche che gli occorrevano per mantenere il ducato di Romagna,
che si dissolse tornando a frammentarsi nelle vecchie signorie, mentre Venezia
s'impadronì di Imola e di Rimini. Dopo il brevissimo pontificato di Pio III,
Machiavelli fu inviato a Roma il 24 ottobre 1503 per il conclave che il 1º
novembre elesse Giulio II. Raccolse le ultime confidenze del Valentino, del
quale pronosticò la rovina imminente, e cercò di comprendere le intenzioni
politiche del nuovo papa, che egli sperava s'impegnasse contro i Veneziani, le
cui mire espansionistiche erano temute da Firenze: «O la sarà una porta che
aprirà loro tutta Italia, o fia la rovina loro», scrive il 24 novembre.
A Roma gli giunse la notizia della nascita del secondogenito Bernardo: «Somiglia
voi, è bianco come la neve, ma gli ha il capo che pare velluto nero, et è peloso
come voi, e da che somiglia voi parmi bello», gli scrive la moglie Marietta il
24 novembre. E Machiavelli, che lungamente in questo scorcio di tempo aveva
frequentato la casa del cardinal Soderini, al quale forse prospettò già il suo
progetto di costituire una milizia nazionale che sostituisse l'infida soldatesca
mercenaria, il 18 dicembre s'avviò per Firenze.
In Francia
Le fortune della Francia in Italia sembrarono declinare
dopo la cacciata dal Napoletano ad opera dell'armata spagnola di Gonzalo
Fernández de Córdoba. Firenze, alleata di Luigi XII, e timorosa delle prossime
iniziative della Spagna, del papa e della nemica tradizionale, la Siena di
Pandolfo Petrucci, era interessata a conoscere i progetti del re e a questo
scopo alla sua corte mandò Machiavelli «a vedere in viso le provvisioni che si
fanno e scrivercene immediate, e aggiungervi la coniettura e iudizio tuo». Il 22
gennaio 1504 Machiavelli era a Milano per conferire con il luogotenente Charles
II d'Amboise, che non credeva in un attacco spagnolo in Lombardia e rassicurò
Niccolò sull'amicizia francese per Firenze.
Raggiunse la corte e l'ambasciatore Niccolò Valori a Lione il 27 gennaio,
ricevendo uguali rassicurazioni dal cardinale di Rouen e da Luigi stesso. In
marzo ripartiva per Firenze e di qui si recava per pochi giorni a Piombino da
Jacopo d'Appiano, per sondare la posizione di quel signorotto.
È di questo tempo la stesura del suo primo Decennale, una storia dei fatti
notevoli occorsi degli ultimi dieci anni volta in terzine: Machiavelli non è
poeta, anche se invoca Apollo nell'esordio del poemetto, ma a noi interessa il
suo giudizio sull'attualità della vicenda politica italiana e su quel che
attende Firenze:
« L'imperador, con l'unica sua prole
vuol presentarsi al successor di Pietro
al Gallo il colpo ricevuto duole;
e Spagna che di Puglia tien lo scetro
va tendendo a' vicin laccioli e rete,
per non tornar con le sue imprese a retro;
Marco, pien di paura e pien di sete,
fra la pace e la guerra tutto pende;
e voi di Pisa troppa voglia avete [ .... ]
Onde l'animo mio tutto s'infiamma
or di speranza, or di timor si carca
tanto che si consuma a dramma a dramma,
perché saper vorrebbe dove, carca
di tanti incarchi debbe, o in qual porto,
con questi venti, andar la vostra barca.
Pur si confida nel nocchier accorto
ne' remi, nelle vele e nelle sarte;
ma sarebbe il cammin facile e corto
se voi el tempio riapriste a Marte »
(Decennale primo, vv 529-549)
I tentativi d'impadronirsi di Pisa fallirono ancora: battuta a Ponte a
Cappellese il 27 marzo 1505, Firenze doveva anche guardarsi dalle manovre dei
signori ai loro confini. Machiavelli andò a Perugia l'11 aprile per conferire
col Baglioni, ora alleato con gli Orsini, con Lucca e con Siena, poi a Mantova,
per cercare invano accordi con il marchese Giovan Francesco Gonzaga e il 17
luglio a Siena. In settembre, fallì un nuovo assalto a Pisa e Machiavelli ne
trasse spunto per presentare la proposta della creazione di un esercito
cittadino. Rimasti diffidenti i maggiorenti della città - che temevano che un
esercito popolare potesse costituire una minaccia per i loro interessi - ma
appoggiato dal Soderini, Machiavelli si mosse per mesi nei borghi toscani a far
leva di soldati, istruiti «alla tedesca», e finalmente, il 15 febbraio 1506,
Firenze poté vedere la prima parata di una milizia «nazionale» che peraltro non
avrà nessun ruolo nella successiva conquista di Pisa e si rivelerà di scarso
affidamento nella difesa di Prato del 1512.
La seconda legazione a Roma
Con la pace concordata con la Francia
nell'ottobre 1505, la Spagna, con Ferdinando II d'Aragona, aveva preso
definitivamente possesso del Regno di Napoli. I piccoli stati della penisola
attendevano ora le mosse di Giulio II, deciso a imporre la sua egemonia
nell'Italia centrale: nel luglio, il papa chiese a Firenze di partecipare alla
guerra che egli intendeva muovere al signore di Bologna, Giovanni Bentivoglio,
che era alleato, come Firenze, dei francesi, e perciò teoricamente amico, oltre
che confinante, dei Fiorentini. Si trattava di temporeggiare, osservando gli
sviluppi dell'impresa del papa al quale fu mandato Machiavelli, che lo incontrò
a Nepi il 27 agosto 1506.
Giulio II gli dimostrò di godere dell'appoggio della Francia, che aveva promesso
di inviare truppe in suo aiuto, cosicché fu agevole a Machiavelli promettere
aiuti a sua volta - dopo però che fossero arrivati quelli di re Luigi - e seguì
papa Giulio che, con la sua corte curiale e pochi armati se n'andava a Perugia,
ottenendo, il 13 settembre, la resa senza combattimento di Giampaolo Baglioni
che, con stupore e rimprovero del Machiavelli e, un giorno, anche del
Guicciardini, non ebbe il coraggio di opporsi alle poche forze allora a
disposizione del Papa. La corte papale, dopo aver atteso a Cesena fino a ottobre
l'arrivo dei francesi e, dopo questi, dei Fiorentini di Marcantonio Colonna,
entrò trionfante a Bologna l'11 novembre.
Machiavelli, tornato a Firenze già alla fine d'ottobre, s'occupò ancora
dell'istituzione delle milizie fiorentine: il 6 dicembre furono creati i Nove
ufficiali dell'Ordinanza e Milizia fiorentina, eletti dal popolo, responsabili
militari della Repubblica.
In Germania
Il nuovo anno 1507 si aprì con
le minacce del passaggio in Italia del «Re dei Romani» Massimiliano,
intenzionato a ribadire le proprie pretese di dominio sulla penisola, a
espellere i francesi e a farsi incoronare a Roma «imperatore del Sacro Romano
Impero». Si valutò a Firenze la possibilità di finanziargli l'impresa in cambio
della sua amicizia e del riconoscimento dell'indipendenza della Repubblica: il
27 giugno fu inviato a questo scopo l'ambasciatore Francesco Vettori e, il 17
dicembre, lo stesso Machiavelli. Giunse a Bolzano, dove Massimiliano teneva
corte, l'11 gennaio 1508 e le lunghe trattative sull'esborso preteso da
Massimiliano s'interruppero quando i Veneziani, sconfiggendolo più volte, gli
fecero comprendere la velleità dei suoi sogni di gloria.
Da questa esperienza Machiavelli trasse tre scritti, il Rapporto delle cose
della Magna, composto il 17 giugno 1508, il giorno dopo il suo rientro a
Firenze, il Discorso sopra le cose della Magna e sopra l'Imperatore, del
settembre 1509, e il più tardo Ritratto delle cose della Magna, del 1512, una
rielaborazione del primo Rapporto. Rileva la grande potenza della Germania, che
«abunda di uomini, di ricchezze e d'arme»; le popolazioni hanno «da mangiare e
bere e ardere per uno anno: e così da lavorare le industrie loro, per potere in
una obsidione [assedio] pascere la plebe e quelli che vivono delle braccia, per
uno anno intero sanza perdita. In soldati non spendono perché tengono li uomini
loro rmati ed esercitati; e li giorni delle feste tali uomini, in cambio delli
giuochi, chi si esercita collo scoppietto, chi colla picca e chi con una arme e
chi con una altra, giocando tra loro onori et similia, e quali tra loro poi si
godono. In salari e in altre cose spendono poco: talmente che ogni comunità si
truova ricca in publico».
Importano e consumano poco perché «le loro necessità sono assai minori delle
nostre», ma esportano molte merci «di che quasi condiscono tutta la Italia [...]
e così si godono questa loro rozza vita e libertà e per questa causa non
vogliono ire alla guerra se non sono soprappagati e questo anche non basterebbe
loro, se non fussino comandati dalle loro comunità. E però bisogna a uno
imperadore molti più denari che a uno altro principe».
Tanta forza potenziale, che potrebbe fare la grandezza politica e militare
dell'Imperatore, è limitata dalle divisioni delle comunità governate dai singoli
principi, una realtà simile a quella italiana: nessun principe tedesco vuole
favorire l'imperatore, «perché, qualunque volta in proprietà lui avessi stati o
fussi potente, e' domerebbe e abbasserebbe e principi e ridurrebbeli a una
obedienzia di sorte da potersene valere a posta sua e non quando pare a loro:
come fa oggi il re di Francia, e come fece già il re Luigi, quale con l'arme e
ammazzarne qualcuno li ridusse a quella obedienzia che ancora oggi si vede».
La conquista di Pisa
Decisa a concludere le operazioni militari contro
Pisa, Firenze mandò Machiavelli a far leve di soldati: in agosto condusse
soldati prelevati da San Miniato e da Pescia all'assedio della città
irriducibile. Riunite altre milizie, si incaricò di tagliare i rifornimenti
bloccando l'Arno; poi, il 4 marzo del 1509, andò prima a Lucca a intimare a
quella Repubblica di cessare ogni aiuto ai Pisani e, il 14, ri recò a Piombino,
incontrando gli ambasciatori di Pisa per cercare invano un accordo di resa.
Raccolte nuove truppe, in maggio era presente all'assedio: Pisa, ormai stremata,
trattava finalmente la pace. Machiavelli accompagnò i legati pisani a Firenze
dove, il 4 giugno 1509 fu firmata la resa e l'8 giugno poté entrare in Pisa con
i commissari Niccolò Capponi, Antonio Filicaia e Alamanno Salviati.
A Verona e in Francia
Un ben più vasto incendio era intanto divampato nell'Italia settentrionale:
stipulato un patto di alleanza a Cambrai, Francia, Spagna, Impero e papato si
avventavano contro la Repubblica veneziana che a maggio cedeva i suoi
possedimenti lombardi e romagnoli e, in giugno, anche Verona, Vicenza e Padova,
consegnate a Massimiliano. Firenze, da parte sua, doveva finanziare la nuova
impresa imperiale: consegnato un primo acconto in ottobre, il 21 novembre
Machiavelli era a Verona per consegnare il saldo a Massimiliano, che era stato
però costretto alla ritirata dalla controffensiva veneziana, resa possibile
dalla rivolta popolare contro i nuovi padroni. E Machiavelli commentava dei «due
re, che l'uno può fare la guerra e non vuol farla, l'altro ben vorrebbe farla e
non può», riferendosi a Luigi e a Massimiliano che se n'era tornato in
Germania a chiedere soldati e denari ai principi tedeschi. Atteso inutilmente il
ritorno dell'Imperatore, il 2 gennaio 1510 Machiavelli se ne tornò a Firenze.
Venezia si salvò soprattutto grazie alle divisioni degli alleati: mentre Luigi
XII aveva tutto l'interesse di ridurre all'impotenza Venezia per avere le mani
libere nella pianura padana, Giulio II la voleva abbastanza forte da opporsi
alla Francia senza averne contrasto alle proprie ambizioni di espansione. Per
Firenze, amica della Francia ma non nemica del papa, era necessario spiegarsi
con il re francese, e Machiavelli fu mandato a Blois, dove Luigi teneva la corte,
incontrandolo il 17 giugno 1510.
Machiavelli confermò l'amicizia con la Francia ma disse di dubitare che la
Repubblica potesse impegnarsi in una guerra contro Giulio II, in grado di
volgere contro Firenze forze troppo superiori: meglio sarebbe stata una
mediazione che evitasse il conflitto e sottraesse, oltre tutto, Firenze dalla
responsabilità di un impegno nel quale era difficile trarre un guadagno. Dovette
tornare a Firenze il 19 ottobre, convinto che la guerra fosse ineluttabile.
Le vittorie militari non furono sfruttate da Luigi XII e la sua indizione di un
concilio a Pisa, che condannasse il papa, provocò l'interdetto di Giulio II
contro Firenze. Il 22 settembre 1511 Machiavelli era ancora in Francia,
ottenendo dal re soltanto un breve rinvio del concilio: dalla Francia andò a
Pisa e riuscì a ottenere il trasferimento del concilio a Milano.
Il ritorno dei Medici a Firenze
Le fortune di Luigi XII volgevano al
tramonto: sconfitto dalla nuova coalizione guidata dal papa, era costretto ad
abbandonare la Lombardia, lasciando Firenze politicamente isolata e incapace di
resistere alle armi spagnole. Il 31 agosto 1512 Pier Soderini fuggì a Siena, i
Medici rientrarono a Firenze: disfatto il vecchio governo, il 7 novembre anche
Machiavelli venne rimosso dal suo incarico, il successivo 10 novembre fu
confinato e multato della grande somma di mille fiorini e il 17 gli fu
interdetto l'ingresso a Palazzo Vecchio.
Il nuovo regime processò Pietro Paolo
Boscoli e Agostino Capponi, accusati di aver complottato contro il cardinale
Giovanni de' Medici, condannandoli a morte. Anche Machiavelli è sospettato:
arrestato il 12 febbraio 1513, fu anche torturato (con una tortura che si chiama
"Colla"). Scrisse allora a Giuliano de' Medici due sonetti, per ricordargli, ma
senza averne l'aria e in forma scherzosa, la sua condizione di carcerato:
« Io ho, Giuliano, in gamba un paio di geti
e sei tratti di fune in sulle spalle;
l'altre miserie mie non vo' contalle,
poiché così si trattano i poeti Menon pidocchi queste parieti
grossi e paffuti che paion farfalle,
né mai fu tanto puzzo in Roncisvalle
o in Sardigna fra quegli arboreti
quanto nel mio sì delicato ostello »
Giulio II moriva intanto proprio in quei giorni e dal conclave uscì eletto l'11
marzo il cardinale de' Medici con il nome di Leone X: era la fine dei pericoli
di guerra per Firenze e anche il tempo dell'amnistia. Uscito dal carcere,
Machiavelli cercò di ottenere favori dai Medici attraverso l'ambasciatore
Francesco Vettori e lo Giuliano, ma invano. Si ritirò allora nel suo podere
dell'Albergaccio, a Sant'Andrea in Percussina, tra Firenze e San Casciano in Val
di Pesa.
L'esilio dalla politica. «Il Principe»
Qui, tra le giornate rese
lunghe dall'ozio forzato, comincia a scrivere i Discorsi sopra la prima Deca di
Tito Livio che, forse nel luglio 1513, interrompe per metter mano al suo libro
più famoso, il De Principatibus, dal solenne titolo latino ma scritto in volgare
e perciò divenuto ben più noto come Il Principe. Lo dedica dapprima a Giuliano
de' Medici e, dopo la morte di questi nel 1516, a Lorenzo de' Medici, figlio di
Piero; ma il libro uscì solo postumo, nel 1532.
Certo, non doveva farsi illusioni che un Medici potesse mai essere quel «redentore»
atteso dall'Italia contro «questo barbaro dominio», ma da un Medici si attendeva
almeno la sua propria «redenzione» dall'inattività cui era stato relegato dal
ritorno a Firenze di quella famiglia. Sperava che l'amico Vettori, ambasciatore
a Roma, si facesse interprete del suo «desiderio [...] che questi signori Medici
mi cominciasseino adoperare», dal momento «che io sono stato a studio all'arte
dello stato [...] e doverrebbe ciascheduno aver caro servirsi d'uno che alle
spese d'altri fussi pieno d'esperienza. E della fede mia non si doverrebbe
dubitare, perché, avendo sempre osservato la fede, io non debbo imparare ora a
romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatré anni che io ho, non debbe
potere mutare natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia».
Delle ombre della sua povertà, ma anche delle sue luci, Machiavelli scrive al
Vettori in quella che è la più famosa lettera della nostra letteratura:
« Venuta la sera, mi
ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio; e in su l'uscio mi spoglio quella
veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e
rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove,
da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io
nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandargli della
ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento
per quattro ore di tempo alcuna noia; sdimentico ogni affanno, non temo la
povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in loro. E perché
Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo avere inteso, io ho notato
quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno
opuscolo de Principatibus »
(Lettera a Francesco Vettori, 10 dicembre 1513)
Ritornato il 3 febbraio 1514 a Firenze, continuò a sperare a lungo che il
Vettori, al quale spedì il manoscritto del Principe, lo facesse introdurre
in qualche incarico nell'amministrazione cittadina, ma invano. Tutto dipendeva
dalla volontà del papa, e Leone non era affatto intenzionato a favorire chi non
si era mostrato, a suo tempo, favorevole agli interessi di Casa Medici.
Machiavelli, da parte sua, scriveva al Vettori di aver «lasciato i pensieri
delle cose grandi e gravi» e di non dilettarsi più di «leggere le cose antiche,
né ragionare delle moderne: tutte si sono converse in ragionamenti dolci». Si
era infatti innamorato di una «creatura tanto gentile, tanto delicata, tanto
nobile e per natura e per accidente, che io non potrei né tanto laudarla né
tanto amarla che la non meritasse più».
La guerra, ripresa in Italia dalla discesa del nuovo re di Francia Francesco I,
si concluse nel settembre 1515 con la sua grande vittoria a Marignano (oggi
Melegnano) contro la vecchia «Lega santa»: Leone X dovette accettare il dominio
francese in Lombardia e la stipula a Bologna di un concordato che riconosceva il
controllo reale sul clero francese. Si rifece impossessandosi, per conto del
nipote Lorenzo, capitano generale dei Fiorentini, del Ducato di Urbino. A
quest'ultimo invano dedicava Machiavelli il suo Principe: la sua esclusione
dalla gestione degli affari di Firenze continuava.
Gli «ozi letterari»
Nel 1516 o 1517 si diede a frequentare gli «Orti
Oricellari», latineggiamento che indica i giardini del Palazzo di Cosimo
Rucellai, dove si riunivano letterati, giuristi ed eruditi come Luigi Alamanni,
Jacopo da Diacceto, Jacopo Nardi, Zanobi Buondelmonti, Antonfrancesco degli
Albizi, Filippo de' Nerli e Battista della Palla. Qui vi lesse probabilmente
qualche capitolo di quell'Asino, poemetto in terzine che voleva essere una
contaminazione fra l'Asino d'oro di Apuleio e la Divina Commedia dantesca, ma
che lasciò presto interrotto: e al Rucellai e al Buondelmonti dedicò i Discorsi
sopra la prima Deca di Tito Livio, scritti dal 1514 al 1517.
Machiavelli si era già cimentato, quando ricopriva l'incarico di segretario
della Repubblica, in composizioni teatrali: una imitazione dell'Aulularia di
Plauto e una commedia, Le maschere, ispirata ad Aristofane, sono tuttavia
perdute. Al 1518 risale il suo capolavoro letterario, la commedia Mandragola,
nel cui prologo egli rilascia un accenno autobiografico
« scusatelo con questo, che s'ingegna
con questi van pensieri
fare el suo tristo tempo più suave,
perch'altrove non have
dove voltare el viso;
ché gli è stato interciso
mostrar con altre imprese altra virtue,
non sendo premio alle fatiche sue. »
Intorno a quest'anno vanno collocate la sua traduzione dell'Andria di Terenzio e
la novella di Belfagor arcidiavolo o Novella del demonio che pigliò moglie - il
suo titolo preciso è attualmente stabilito in Favola - il cui tema di fondo è la
visione pessimistica dei rapporti che legano gli esseri umani, tutti intesi al
proprio interesse a danno, se necessario, di quello di ciascun altro.
Machiavelli e il Rinascimento
Con il termine machiavellico si è spesso
indicato un atteggiamento spregiudicato e disinvolto nell'uso del potere: un
buon principe deve essere astuto per evitare le trappole tese dagli avversari,
capace di usare la forza se ciò si rivela necessario, abile manovratore negli
interessi propri e del suo popolo. Ciò si accompagna a un travaglio personale
che il Machiavelli sentiva nella sua attività quotidiana e di teorico, secondo
una tradizione politica che già in Cicerone affermava: "un buon politico deve
avere le giuste conoscenze, stringere mani, vestire in modo elegante, tessere
amicizie clientelari per avere un'adeguata scorta di voti".
Con Machiavelli l'Italia ha conosciuto il più grande teorico della politica.
Secondo Machiavelli la politica è il campo nel quale l'uomo può mostrare nel
modo più evidente la propria capacità di iniziativa, il proprio ardimento, la
capacità di costruire il proprio destino secondo il classico modello del faber
fortunae suae.
Nel suo pensiero si risolve il conflitto fra regole morali e ragion di Stato che
impone talvolta di sacrificare i propri princìpi in nome del superiore interesse
di un popolo.
La concezione della storia
Per Machiavelli la storia è il punto di
riferimento verso il quale il politico deve sempre orientare la propria azione.
La storia fornisce i dati oggettivi su cui basarsi, i modelli da imitare, ma
indica anche le strade da non ripercorrere. Machiavelli si basa su una
concezione ciclica della storia: "Tutti li tempi tornano, li uomini sono sempre
li medesimi". Ma ciò che allontana Machiavelli da una visione deterministica
della storia è l'importanza che egli attribuisce alla "virtù", ovvero alla
capacità dell'uomo di dominare il corso degli eventi utilizzando opportunamente
le esperienze degli errori compiuti nel passato.
Non a caso il Principe, nella conclusione, abbandona il suo taglio cinico e
pragmatico per esortare i sovrani italiani, con una scrittura più solenne e
venata di un certo idealismo, a riconquistare la sovranità perduta e a cacciare
l'invasore straniero. Non c'è rassegnazione nel Principe, né tanto meno sfiducia
nei confronti dell'uomo.
Il senso della nazione
Una errata interpretazione del ‘900 fece del
Machiavelli un precursore del movimento unitario, ma la parola nazione ha
assunto l'attuale significato solo a partire dalla seconda metà del ‘700, mentre
il Machiavelli la usò in senso particolaristico e cittadino (es. nazione
fiorentina o, nel senso più generico di popolo, moltitudine).
Tuttavia, Machiavelli propugnava un principato in grado di reggersi sull'unità
etnica dell'Italia; così facendo, e denunciando in tal modo una chiara coscienza
dell'esistenza di una civiltà italiana, Machiavelli predica la liberazione
dell'Italia sotto il patrocinio di un principe criticando il dominio temporale
dei Papi che spezza in due la penisola.
Ma l'unità d'Italia resta in Machiavelli un problema solo intuito. Non si può
dubitare che avesse concepito l'idea dell'unità d'Italia, ma tale idea restò
indeterminata, poiché non trovò appigli concreti nella realtà, restando perciò a
livello di utopia, cui solo dava forma la figura ideale del principe nuovo.
Machiavelli dunque intraprese un viaggio che identificò come viaggio spirituale
in giro per il mondo in seguito tornato in patria ebbe una nuova visione sia del
"popolo" che della "nazione" così comincia quello che oggi definiamo
rinnovamento culturale.
Il principe o De Principatibus
Emblematico è il modo di trattare argomenti delicati, quali le mosse necessarie
al Principe per organizzare uno stato ed ottenerne uno stabile e duraturo
consenso. Per esempio vi troviamo indicazioni programmatiche, quali l'utilità
nello "spegnere" gli stati abituati a vivere liberi di modo da averli sotto il
proprio diretto controllo (metodo preferito al creare un'amministrazione locale
"filo-principesca" o al recarvisi e stabilirvisi personalmente, metodo però
sempre tenuto da conto in modo da avere un occhio sempre presente sulle proprie
terre, e stabilire una figura rispettata e conosciuta in loco).
Altro elemento caratteristico del trattato sta nella scelta dell'atteggiamento
da tenere nei confronti dei sudditi, culminante nell'annosa questione del
"s'elli è meglio essere amato che temuto o e converso" (Cap. XVII). La risposta corretta si concretizzerebbe in un ipotetico principe amato e temuto,
ma essendo difficile o quasi impossibile per una persona umana l'essere ambedue
le cose, si conclude decretando che la posizione più utile viene ad essere
quella del Principe temuto (pur ricordando che mai e poi mai il Principe dovrà
rendersi odioso nei confronti del popolo, fatto che porrebbe i prodromi della
propria caduta). Qua appare indubbiamente la concezione realistica e la
concretezza del Machiavelli, il quale non viene a proporre un ipotetico Principe
perfetto, ma irrealizzabile nel concreto, bensì una figura effettivamente
possibile e soprattutto "umana".
Ulteriore atteggiamento principesco dovrà l'essere metaforicamente sia "volpe"
che "leone", in modo da potersi difendere dalle avversità sia tramite l'astuzia
(volpe) che tramite la violenza (leone). Mantenendo un solo atteggiamento dei
due non ci si potrà difendere da una minaccia violenta o di astuzia.
Spesso alla figura evocata dal Principe di Machiavelli viene associata la figura
di un uomo privo di scrupoli, di un cinismo estremo, nemico della libertà.
Spesso gli viene anche associata la frase "il fine giustifica i mezzi", che -
invece - mai enunciò. Questo perché la parola "giustifica" evoca sempre un
criterio morale, mentre Machiavelli non vuole "giustificare" nulla, vuole solo
valutare, in base ad un altro metro di misura, se i mezzi utilizzati sono adatti
a conseguire il fine politico, l'unico fine da perseguire è il mantenimento
dello Stato. Machiavelli nella stesura del Principe si rifà alla reale
situazione che gli si presentava attorno, una situazione che necessitava essere
risolta con un atto deciso, forte, violento. Machiavelli non vuole proporre dei
mezzi giustificati da un fine, egli pone un programma politico che qualunque
Principe voglia portare alla liberazione dell'Italia, da troppo tempo schiava,
dovrà seguire. Fuori dai suoi intenti una giustificazione morale dei punti
suggeriti: egli stende un vademecum necessariamente utile a quel Principe che
finalmente vorrà impugnare le armi. Alle accuse di sola illiberalità od
autoritarismo, si può dare una risposta leggendo il capitolo IX, "De Principatu
Civili", ritratto di un principe nascente dal e col consenso del popolo, figura
ben più solida del Principe nato dal consesso dei "grandi", cioè dei grandi
proprietari feudali. Non esiste un unico tipo di principato, ma per ognuno
troviamo un'ampia trattazione di pregi e dei difetti.
Controversie sul Principe
« quel grande
che temprando lo scettro a' regnatori
gli allor ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue »
(Ugo Foscolo, Dei sepolcri)
La gelida obiettività con cui Machiavelli descriveva il comportamento freddo,
razionale ed eventualmente spietato che un capo di stato deve mettere in atto,
colpì i critici. Così, da una parte vi è la linea di pensiero tradizionale,
secondo la quale "Il Principe" è un trattato di scienza politica destinato al
governante, che tramite esso saprà come affrontare i problemi, spesso
drammatici, posti dal suo ruolo di garante della stabilità dello stato;
dall'altra, troviamo un'interpretazione secondo cui il trattato di Machiavelli
ha come vero scopo quello di mettere a nudo, e quindi chiarire, le atrocità
compiute dai principi dell'epoca, a vantaggio del popolo, che di conseguenza
avrebbe le dovute conoscenze per attuare le precauzioni al fine di stare in
guardia e difendersi quando si dimostra necessario.Visto anche come figura assai
drammatica la quale per il bene dello stato stesso non si può permettere di
lasciare spazio al proprio carattere diventando così quasi un uomo macchina.
Questa seconda interpretazione (la cosiddetta "interpretazione obliqua"),
sostenuta soprattutto in ambito illuminista (che vedeva in Machiavelli un
precursore) nel Settecento da Rousseau, Alfieri, Baretti e Parini ha avuto
diffusione soprattutto nell'Ottocento, prima e durante il Risorgimento; ne è un
esempio Ugo Foscolo nei "Sepolcri": "Io quando il monumento / vidi ove posa il
corpo di quel grande / che temprando lo scettro a' regnatori / gli allor ne
sfronda, ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue;". In epoca
più recente, tuttavia, è prevalso il primo orientamento, dal quale risalta la
libertà e concretezza anche spregiudicata del pensiero di Machiavelli.
Lo stile
Il modello linguistico prescelto da Machiavelli è fondato
sull'uso vivo più che sui modelli letterari; lo scopo, esplicito soprattutto nel
Principe, di scrivere qualcosa di utile e chiaramente espressivo lo induce a
scegliere spesso modi di dire proverbiali di immediata evidenza.
Il lessico impiegato dall'autore si rifà a quello boccacciano, è ricco di parole
comuni e i latinismi, seppure abbondanti, provengono per lo più dal gergo
cancelleresco. Nelle sue opere ricoprono un ruolo assai rilevante anche le
metafore, i paragoni e le immagini.
La concretezza è una delle caratteristiche salienti, l'esempio concreto ed
essenziale, tratto dalla storia sia antica che recente, è sempre preferito al
concetto astratto.
In generale si parla di uno stile "fresco", come lo ebbe a definire Nietzsche in
Al di là del bene e del male, con un riferimento particolare all'uso della
paratassi, a una certa sentenziosità delle frasi, costruite secondo un criterio
di chiarezza a scapito di un maggior rigore logico-sintattico. Machiavelli rende
evidenti concetti che, se espressi con un linguaggio più elaborato, sarebbero
molto difficili da decifrare, e riesce a esprimere le sue tesi con originale
capacità espositiva.
Opere principali
Discorso fatto al magistrato de' Dieci sopra le cose
di Pisa, (1499)
Parole da dirle sopra la provvisione del danaio, (1503)
Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo
Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini,
(1503)
Ritratto delle cose di Francia (1510)
Ritratto delle cose della Magna (1512)
Il Principe, (1513) - Testo su Wikisource
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, (1513 –1519)
Dell'arte della guerra, (1516 – 1520)
La vita di Castruccio Castracani da Lucca, (1520)
Istorie Fiorentine, (1520 – 1525)
Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua (pubblicato nel 1730)
Decennali
La mandragola, (1513) (commedia teatrale)
Belfagor arcidiavolo (1518 - 1527)
Epistolario (1497 – 1527)
L'asino d'oro (1517)
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